L’11 gennaio 1996 segna una delle pagine più oscure della storia della lotta alla mafia in Italia. In questa data, Giuseppe Di Matteo, un ragazzo di soli 14 anni, perde la vita in uno degli atti più crudeli della criminalità organizzata siciliana. Giuseppe era il figlio del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, che aveva deciso di collaborare con la giustizia per fornire informazioni cruciali sulle operazioni della mafia, in particolare sul boss Giovanni Falcone.
Nel 1993, per ritorsione contro la scelta del padre, Giuseppe fu sequestrato dalla mafia. Per più di due anni, il ragazzo fu tenuto prigioniero in condizioni disumane. Le sue sofferenze non furono solo fisiche, ma anche psicologiche: una lunga agonia alimentata dalla consapevolezza di essere usato come strumento di ricatto nei confronti del padre. Nonostante le richieste di riscatto e le trattative, la sua sorte era segnata.
Il 11 gennaio 1996, dopo più di 700 giorni di prigionia, Giuseppe Di Matteo venne brutalmente assassinato. Il suo corpo fu dissolto nell’acido, un gesto simbolico per cancellare ogni traccia della sua esistenza e, al contempo, per lanciare un messaggio di terrore contro chiunque pensasse di opporsi alla mafia. La sua morte scosse l’opinione pubblica nazionale e contribuì ad alimentare il fervore della lotta contro la criminalità organizzata.
L’assassinio di Giuseppe Di Matteo, che avrebbe avuto 14 anni, rimane uno dei crimini più efferati perpetrati dalla mafia siciliana, simbolo della spietatezza con cui l’organizzazione trattava chiunque si fosse opposto ai suoi interessi. La vicenda di Giuseppe, un giovane innocente, è diventata un emblema del sacrificio che la lotta alla criminalità ha spesso imposto a chi ha osato sfidare il potere mafioso.