Cabrini, i 60 anni del Bell’Antonio: ”Le donne mi tiravano l’oro, io non mi sarei fatto neanche un selfie’

 

Il campione del mondo: ”Essere bello mi è pure servito, sono stato il primo calciatore italiano a fare pubblicità. Ho sempre saputo gestirmi, poteva arrivare anche miss mondo nuda, ma se c’era la partita non la guardavo neppure”

 

Il Bell’Antonio esce in strada con addosso una tuta dell’Italia, la felpa è bianca, la scritta in maiuscolo. Domenica ne compie sessanta e ancora si veste come un ragazzino? “No, è che stiamo ristrutturando e devo stare comodo, è un cantiere infinito. Altrimenti, io in tuta mai”. Ci sediamo tutti e tre al piccolo tavolino del bar sotto casa sua, qui Milano è bellissima tra Magenta e San Vittore. La terza persona è Marta, da nove anni la compagna di Antonio Cabrini. Lei prende due biscotti alla Nutella, noi una limonata e un caffè. Qualcuno passa e riconosce il Bell’Antonio, perché il tempo delle leggende è immobile.

Antonio, ma è immobile questo tempo?
“Seeh, magari. Ogni tanto un bambino mi chiede di fare la foto, avrà visto le mie partite su YouTube”.
Il tempo, dunque. Pure lui, un cantiere infinito.
“A vent’anni fai le cose e basta. A trenta, conti fino a 10 e le fai lo stesso. A quaranta conti fino a 100 e ovviamente le rifai. A cinquanta ti guardi indietro e ti chiedi: sarà stato giusto farle? A sessanta non ci pensi più”.
Cos’è stata, tutta questa bellezza?
“Qualcosa di ricevuto senza alcun merito. Ogni mattina, lo specchio non mi diceva proprio niente, non mi accorgevo, non mi sarei mai fatto un selfie, che stupidaggine. Poi ti abitui, ci credi perché migliaia di ragazzine te lo ripetono. E alla fine, essere bello mi è pure servito”.

Mai avuto il sospetto di sembrare persino più bravo in campo?
“Per via della bellezza? Ma no, spero di no. Quando Brera mi battezzò Bell’Antonio provai fastidio, ma siccome non potevo cancellare questa cosa l’ho cavalcata. Sono stato il primo calciatore italiano a fare pubblicità”.
Correvi al rallentatore in un bosco, faceva abbastanza ridere.
“Sì, per la Robe di Kappa che allora era sponsor tecnico della Juventus. Girammo lo spot a Pino Torinese, me lo ricordo come fosse adesso”. Marta trova il filmato sul tablet. Antonio sorride: “Eccomi!”
Cosa ti dice quel ragazzo, mentre lo guardi?
“Mi riporta indietro a quando mi sentivo il mondo in mano e la vita davanti, spalancata, tutta intera e possibile. A qualcuno quel mondo scappava, scivolava via. A me no. Ho saputo dare il giusto peso e restare concentrato. Conoscevo la mia fortuna e pensavo a giocare bene a pallone”.
Ma con tutte quelle donne, chissà.
“Ho sempre saputo gestire, fermarmi. Poteva arrivare anche miss mondo nuda, ma se c’era la partita non la guardavo neppure”.
Una volta, Paolo Rossi ha raccontato che le ragazze ti lanciavano reggiseni e catenine.
“Mi tiravano l’oro come se fossi un santo. Un pomeriggio a Campobasso, nei 50 metri tra il pullman della Juve e l’albergo mi hanno levato quasi tutti i vestiti di dosso, ci saranno state tremila persone. Le donne lanciavano pure gli slip. Paolo dice che a terra c’erano manciate d’oro”.
Poi, tutto finisce.
“Ma non di colpo. C’è ancora gente che si avvicina e mi vuole toccare. Toccare, proprio, mica solo salutarmi. Alla fine ti abitui”.
Adesso il Bell’Antonio è un po’ stempiato e ha un filo di pancia: come la mettiamo?
“Noi calciatori siamo bambini dentro, mica per niente passiamo la vita a giocare. Quello che si vede dall’esterno conta fino a un certo punto. La mia prospettiva per il futuro è più o meno sempre la stessa, divertirmi col pallone”.
Però adesso non giochi più, è un po’ difficile, non trovi?
“Gioco eccome. E voglio tornare ad allenare i maschi, magari anche all’estero, vedremo”.
Con la nazionale femminile com’è andata? Sempre donne, con te.
“Benissimo, il movimento è in crescita, tra cinque anni raggiungeremo le nazioni più evolute”.
Come stiamo a pregiudizi?
“Meglio, è cresciuto il rispetto. Quella bestialità sessista che scappò di bocca al dirigente non sarebbe più possibile, sono sicuro. E poi si è capito che il calcio non fa venire le gambe storte! Quelle, se le hai già te le tieni, ma più storte non diventano”.
Mai pensato: se fossi nato trent’anni dopo, sarei stramiliardario?
“Ogni tanto me lo dicono, però rispondo che non ho guadagnato poco neppure così. Noi della Juve ci allenavamo davanti allo stadio Comunale, per tornare negli spogliatoi dovevamo attraversare la strada in mezzo alla gente, eravamo persone, non popstar. Questo, i soldi non lo pagano. E siamo stati giovani, campioni e felici in un tempo migliore”.
Antonio, a sessant’anni diventi nostalgico?
“Io vengo da un’Italia in cui tutti i bambini giocavano a pallone, per strada, nei cortili, nei campetti, all’oratorio. Se eri Cabrini non potevi non scoprirlo. Adesso, per giocare bisogna iscriversi e pagare la quota. Era tutto più facile, alla mano. La nostalgia non c’entra proprio”.
Il tempo toglie, porta via le persone.
“Già è quello che mi manca di più. Ne soffro ancora tanto, per l’uomo che era Gaetano Scirea e per come gli è toccato morire. Dopo tutti questi anni, la sua perdita mi appare impossibile, inimmaginabile. E poi c’è stato Fabrizio, un amico carissimo che vendeva automobili vicino allo stadio e che si uccise per amore. Ci vedevamo ogni giorno. Quando me lo dissero risposi ma che significa, per amore?”.
Già, che significa?
“Non ci si può ammazzare per quello, ma viverci sì. L’amore è stato importante, mi ha riempito l’esistenza. Ho visto crescere Edoardo e Martina, spero di essere stato un buon padre anche se non troppo presente”.
Cosa vuol dire una compagna di diciotto anni più giovane?
“Marta è importante, è molto attenta a tutto quello che mi gravita attorno. Mi aiuta, mi risolve i problemi. E’ dolce però matura, più di me”.
Qualcuno ancora scrive al Bell’Antonio?
“A casa di mia mamma c’è una stanza piena di sacchi di lettere mai aperte. Un giorno mi ci metto”.

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