Il 30 gennaio 2017 ricorre il 49esimo anniversario dell’inizio di quella sanguinosa ed estremamente violenta fase della guerra del Vietnam passata alla storia come “offensiva del Têt”. Il nome di questa ardua operazione militare tentata, con discreto successo, dalla NVA (North Vietnam Army), l’esercito nordvietnamita alleato dei vietcong, deriva dal particolare momento in cui fu avviata. Nella tradizione vietnamita infatti, il Têt Nguyên Dàn corrisponde al nostro primo giorno dell’anno: in questo caso il capodanno, mentre nel calendario occidentale cade il 1° gennaio di ogni anno solare, nel calendario vietnamita cade il 30 gennaio. L’offensiva del Têt, che iniziò appunto nella notte fra il 30 e il 31 gennaio 1968, fu un grande e ben organizzato attacco a sorpresa che le forze nordvietnamite sferrarono contro tutte le principali città del Vietnam del Sud, all’epoca controllato quasi interamente dalle forze armate statunitensi, che avevano il loro quartier generale nella città di Saigon.

Fino a quel momento la sanguinosa guerra del Vietnam, avviata qualche anno prima, tra il 1962 e il 1963, nell’ambito delle continue tensioni della guerra fredda (che tuttavia prima della guerra aveva conosciuto un breve periodo di “distensione”), si era svolta totalmente a favore degli Stati Uniti, che disponevano di un contingente di uomini nettamente superiore a quello del Vietnam del Nord (quasi 1 milione di uomini contro gli “appena” 400.000 vietcong). Il presidente americano Lyndon Johnson, succeduto a Kennedy dopo il suo assassinio nel 1963, poteva disporre anche di un’enorme quantità di mezzi corazzati, di sofisticati aerei da combattimento e di una potentissima flotta (la più potente al mondo), le cui principali portaerei erano stabilmente ancorate nel golfo del Mare cinese del Sud, che bagna le coste dell’intera regione: dunque in qualsiasi momento i centri abitati della giovane nazione governata da Ho Chi Minh (lo storico presidente nordvietnamita che diede il nome al famoso “sentiero”) potevano essere bombardati facilmente dai B-52 dell’USAF.

Nel 1867, dopo tre anni di disastrosi risultati militari, il partito comunista di Hanoi si riunì per ridefinire una più efficace strategia militare; l’intento era quello di rafforzare il già compatto Esercito popolare del Nord con ulteriori effettivi e sfruttare due fondamentali debolezze dell’esercito Usa: in primo luogo il profondo divario esistente tra il governo di Washington e l’opinione pubblica americana, che mal sopportava l’idea di dover pagare un alto prezzo in termini di denaro pubblico e vite umane (più di 50.000 marines americani persero la vita in Vietnam tra il ’64 e il ’75); in secondo luogo le tensioni esistenti tra l’esercito statunitense, comandato dai generali Adams, Westmoreland e Weyand, e i loro alleati sudvietnamiti.

La tattica adottata dalla NVA fu quanto mai azzeccata: essendo il Têt per tradizione una festività osservata in tutto il Vietnam, il governo di Hanoi dichiarò pochi giorni prima del capodanno che avrebbe interrotto completamente le operazioni militari su tutto il territorio per sette giorni a partire dal 30 gennaio. Ovviamente si trattava di una palese trappola (architettata ingegnosamente dal leader della NVA, Vo Nguyen Giap), alla quale i comandanti americani abboccarono solamente in parte. Non fidandosi delle false dichiarazioni dei nordvietnamiti, ma allo stesso tempo non volendo apparire spietati e irrispettosi all’opinione pubblica occidentale, gli americani si limitarono a rinforzare le difese intorno alle principali città del Sud, Saigon compresa. Come se non bastasse, poco prima del capodanno, il governo vietnamita volle dare un’ulteriore dimostrazione delle proprie buone intenzioni, intavolando una trattativa di pace temporanea con l’esercito americano. Con questi colloqui di armistizio i nordvietnamiti speravano di poter illudere ulteriormente gli americani della debolezza del loro esercito (che effettivamente era nettamente inferiore a quello Usa) e di poter forzare il Vietnam del Sud ad accettare parzialmente le condizioni richieste per un’eventuale riunificazione del paese.

Convinti dell’impreparazione dell’esercito statunitense, i soldati nordvietnamiti, fiancheggiati dagli irriducibili vietcong, sferrarono così un violento attacco contro la base americana di Khe Sanh (a soli 8 km dal confine con il Laos), memori del successo conseguito a Dien Bien Phù nel 1954 contro i vecchi invasori francesi. Le prime fasi dell’offensiva furono sanguinose e caratterizzate da rapide azioni di guerriglia: gli americani riuscirono miracolosamente a salvare la loro base solamente grazie ad una serie di massicci bombardamenti sulle linee nemiche nell’ambito dell’ “Operazione Niagara” (composta da circa 30.000 sotto-operazioni militari). In tutto il Sud l’esito fu analogo: le divisioni della NVA e dei vietcong riuscirono a penetrare quasi interamente nel territorio del Vietnam del Sud, assediando letteralmente numerose città (la più celebre fu l’invasione di Huè, dove i soldati giustiziarono centinaia di cittadini).

Verso la fine di febbraio la situazione si calmò leggermente e l’offensiva entrò in una fase di stallo. A rompere gli indugi questa volta furono gli americani, che, riconquistando città dopo città, ricacciarono verso nord le armate di Giap. L’offensiva del Têt si concludeva così formalmente verso la fine di marzo, lasciando sul campo numerose vittime sia da una parte che dall’altra.

Non è ancora chiaro se l’intera operazione programmata dai nordvietnamiti fu un successo oppure una netta sconfitta, ma ad ogni modo si può analizzare l’esito finale dell’offensiva in due modi differenti: senza dubbio la vittoria militare e sul campo fu statunitense, dato che le truppe nemiche riuscirono a mantenere le posizioni solamente per poche settimane e soprattutto perché la superiorità tecnica e militare americana (di uomini e in particolar modo di mezzi) si rivelò schiacciante ed evidente; d’altra parte però il Vietnam del Nord riuscì a ottenere un’importante vittoria psicologica. Prima del Têt infatti la vittoria finale americana era data praticamente per scontata, ma purtroppo la situazione non era così rosea e facile come veniva presentata dal presidente Johnson e dal Segretario della Difesa Robert McNamara, che illusero l’opinione pubblica occidentale con notizie poco aderenti alla realtà riguardo l’andamento della guerra. L’improvviso attacco dei nordvietnamiti, che in origine si aspettavano una rivolta popolare nel Vietnam del Sud a supporto della loro iniziativa militare (cosa che non avvenne), sferrò un duro colpo alla sicurezza degli americani e destò una rabbiosa reazione in patria: nei mesi successivi al gennaio del ’68 furono organizzate numerose proteste in America, principalmente studentesche, che si sarebbero poi diffuse in tutto il mondo occidentale, dando vita alla mobilitazione pacifista del biennio ‘68-’69, passata alla storia come portatrice del “vento del cambiamento”.

Da quel momento in poi l’esito finale della guerra del Vietnam sarebbe stato segnato in favore dei nordvietnamiti e le operazioni militari cessarono definitivamente nel 1975 con la presa di Saigon (il governo americano aveva già ritirato le sue truppe nella primavera del ’73 in seguito al Trattato di Parigi). Per gli americani si trattò di una sconfitta grave, dolorosa e mai dimenticata dai cittadini; era stata condotta per circa dieci anni una guerra inutile, sanguinosa, efferata e percepita come sbagliata dalla maggior parte dei partecipanti occidentali. Una guerra che lascerà per sempre una ferita profonda nell’orgoglio statunitense, riscattato parzialmente solo con la rigida e patriottica politica del repubblicano Ronald Reagan, assoluto protagonista dello scenario internazionale dal 1981 al 1989.

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