All’inizio c’era uno di noi. Maurizio Barendson, colto, estroverso, mezzo napoletano e mezzo olandese, con una voce bellissima e lo sguardo inquieto.

C’era anche la sua firma agli inizi del Giornale, Egidio Sterpa lo raccontava come «un compagno di lavoro e di vita squisito». Poi toccò a chi il format lo aveva inventato con lui, Paolo Valenti, figlio di uno dei ragazzi di via Panisperna: sembrava avere sempre la stessa giacca e la stessa cravatta e nessuno può dire di averlo mai visto in piedi, teneva in riga le sue Sturmtruppen con battute che facevano ridere perché non facevano ridere. Tipo: «Un punto per uno fa bene a tutti e due…». Solo dopo la morte, andò in onda fino alla fine, magrissimo e malato, Nando Martellini rivelò che tifava per la Fiorentina. Nessuno in vent’anni lo aveva mai capito. Novantesimo minuto torna oggi in tv, stessa ora, stesso giorno, ma non la stessa cosa e nemmeno lo stesso canale, cinquant’anni giusti dopo essere nato. Torna Paola Ferrari, in studio con Luca Toni e Milena Bertolini, anche per festeggiare quel giorno, il 27 settembre 1970, tre mesi dopo Italia e Germania quattro a tre, che cambiò i pomeriggi dell’Italia e il costume nazionale, grazie anche a quel siparietto che diventerà familiare come Carosello, «la parata dei pupazzoni» come la chiamava Luigi Necco, una famiglia Addams involontaria e felice che dava una faccia ai gol. Tra collegamenti che non funzionavano, facce che si sovrapponevano e voci fuori campo che irrompevano all’improvviso c’era chi divagava su cose che non c’entravano niente, chi trasmetteva in mezzo a folle che spingevano per farsi inquadrare dalla tv, chi spostava gli accenti dei nomi, Causio con l’accento sulla «u». Venticinque minuti di commedia all’italiana, dodici milioni di spettatori, con la sigla accelerata sulle note di Pancho di Julius Steffaro.

La squadra era di fuoriclasse, ognuno con il suo sipario e il suo teatrino. Giorgio Bubba da Genova, con le giacchette strette, la parlantina veloce e il vocabolario tutto suo; Tonino Carino da Ascoli, impacchettato dentro i suoi abiti vistosi, l’aria sempre imbarazzata, che provava i collegamenti allo specchio; Ferruccio Gard, il pittore, che Paolo Ziliani chiamava «Nosferatu», pallidissimo e legnoso, strangolato a volte da terrificanti golf a collo alto; Marcello Giannini, il «Nostro di Firenze», sempre un po’ svagato, che a volte non si ricordava più cosa doveva dire. «Ed è subito gol – arrischiò una volta – come direbbe Ungaretti». O Luigi Necco, il re del calambour dalla faccia tonda e la sciarpetta for ever, gambizzato per un paio di parole maldigerite dai mammasantissima sull’Avellino calcio. Erano inviati che non si muovevano mai, dai nomi improbabili come Rolando Nutini o Italo Kuhne, dalle tragiche pettinature a riporto come Franco Strippoli, dalle frasi incomprensibili come Gianni Vasino: «Le brutte figure si impara sempre troppo presto come farle più in fretta». E dalle gaffes leggendarie degne di Totò. Enzo Foglianese: «Ferri ha riportato, lo dico per tranquillizzare i familiari, la frattura della mandibola.». Novantesimo con gli anni è diventato tante cose, anche migliori della parata dei pupazzoni, per un paio di anni è sparito dal video, si è trasferito sulle private sotto falso nome, spezzatini e dirette da anni gli hanno tolto il centro del campo, ma il brand è sempre stato di qualità. Sono passati 50 anni ma sembra un secolo fa. Forse la cronaca è finita, ma di sicuro è rimasta la leggenda.

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